Il 20 ottobre il Consiglio di Stato ha licenziato la bozza del codice dei contratti pubblici, una riforma strutturale del sistema degli appalti richiesta per l’attuazione del PNRR. Il Governo Draghi, al fine di conseguire la seconda tranches di aiuti comunitari, ha dichiarato già raggiunto questo obiettivo. Ancora una volta il legislatore si è affidato alla magistratura amministrativa per la stesura di una regolamentazione che ha un impatto notevole sul PIL nazionale[1]. Secondo l’ANAC nel 2021 la spesa in appalti e concessioni è stata di oltre 190 miliardi di euro[2], un vasto mercato fatto prevalentemente di servizi e forniture e, in coda, di costruzione di opere pubbliche. Il 10 per cento del prodotto interno passa attraverso la spesa pubblica che le stazioni appaltanti affrontano per realizzare i propri obiettivi strategici.
La Commissione Carbone (nel 2006 toccò all’allora presidente Pasquale De Lise) ha consegnato un testo che certamente si caratterizza per una struttura innovativa ma che non coglie tuttavia appieno le esigenze che funzionari e dirigenti impegnati ogni giorno a richiedere CIG, negoziare sul MEPA, controllare i requisiti delle imprese e caricare stati di avanzamento sul SIMOG.
Purtroppo, e non sarebbe la prima volta, il testo è carente nel merito ancor prima che nel metodo. E’ scritto da esperti della materia che non sempre hanno “le mani in pasta”. Anche nel 2014 ai tavoli preliminari alla stesura del Codice, poi varato nel 2016, sedevano stakeholders che rappresentavano universi particolari (Ministeri, ANAS, Consip) oppure studiosi della materia, docenti e professori, che si occupano di contratti pubblici in sede contenziosa o per offrire pareri pro veritate senza tuttavia aver mai supportato un RUP in una procedure sotto soglia.
La realtà è diversa da quella descritta nelle norme che ricostruiscono un sistema ideale. La realtà che vive una unione di comuni, un ordine professionale o un’ambasciata è molto diversa da quella che il codice descrive. Tale differenza determina una grande frustrazione negli operatori del settore che devono adattarsi, di volta in volta, cercando di essere conformi alla norma ed allo stesso tempo di realizzare l’interesse pubblico che sono chiamati a conseguire. Almeno questa è l’opinione formata in venti anni di incontri, seminari e convegni con stazioni appaltanti di ogni natura e dimensione.
La stessa ANAC, costituita nel 2006 con lo scopo di governare il sistema e supportare le amministrazioni aggiudicatrici, ha miseramente fallito nel suo compito trasformandosi in istituzione autoreferenziale che ha perso di vista la propria mission. Dopo la presidenza di Raffaele Cantone appare attualmente in balia degli eventi. La scelta di porre a capo dell’autorità indipendente sugli appalti un magistrato inquirente in aspettativa, oggi capo della procura di Perugia, è apparsa – col seno di poi – poco utile a realizzare quel compito di supporto che l’ANAC avrebbe dovuto offrire alle stazioni appaltanti. Per sette anni l’attività si è concentrata sul controllo e sulle sanzioni producendo linee guida prive di contenuto operativo e rimettendo, in molte occasioni, alle amministrazioni il compito di regolare aspetti fondamentali delle procedure di affidamento. Così, ad esempio, le linee guida sugli appalti sotto soglia invitano le stazioni appaltanti ad adottare propri regolamenti sulle indagini di mercato, sull’elenco degli operatori economici, sul controllo dei requisiti delle imprese e sulla rotazione dei fornitori. Non è ciò che si aspettavano decine di migliaia di RUP!
A proposito di RUP, provando ad entrare brevemente nel merito dello schema di Codice, segnaliamo la grande novità del nuovo significato di questo acronimo conosciuto sin dal 1994, quando il legislatore varò la legge quadro sui lavori pubblici conosciuta come Legge Merloni. Erano tempi in cui le leggi assumevano la denominazione comune con il nome del politico proponente. Oggi invece siamo di fronte a “sblocca cantieri”, “spazza corrotti”, “semplificazioni”, “concorrenza” … nessuno che abbia il coraggio di assumere la paternità di fragili testi che mutano con grande rapidità. Ma questa è un’altra storia.
Dicevamo del RUP, che il futuro Codice qualifica come Responsabile Unico del Progetto. Il testo appare innovativo nel prevedere l’ipotesi di mancata nomina del RUP, applicando la regola comune nel procedimento amministrativo in base alla quale l’incarico è svolto dal responsabile che l’avrebbe dovuto nominare. L’acronimo tuttavia non convince nella misura in cui il “progetto” del quale il responsabile dovrebbe occuparsi non sempre è identificabile in un elaborato tecnico da realizzare. Il ponte sullo stretto di Messina o un database per l’aviazione civile sono certamente dei progetti che consentono, come ha indicato anche l’ANAC nella relativa linea guida del 2016, di qualificare il responsabile come project manager. Tuttavia questo titolo appare eccessivo per le decine di migliaia di funzionari che quotidianamente devono affidare un appalto di pulizie, una fornitura di cancelleria oppure eseguire una manutenzione degli edifici. La parola “progetto” rischia di essere fuorviante soprattutto se si tiene conto che la “progettazione” rappresenta una parte fondamentale negli appalti di lavori, dove lo stesso codice mantiene una suddivisione per livelli. Lascia inoltre perplessità la previsione che il RUP possa essere accompagnato nel suo “progetto” da ulteriori responsabili per le diverse fasi del ciclo del contratto. Frazionare la responsabilità non appare utile. Semmai occorre definire meglio le ipotesi di supporto al RUP. In ogni caso non è dal cambiamento del senso di un acronimo che si apprezza una riforma di settore.
Per altro verso, come avvenuto nel 2016, anche con lo schema in esame sembra perdersi un’enorme occasione per introdurre nel codice una disciplina organica del programma di razionalizzazione della spesa pubblica avviato con la finanziaria per l’anno 2000. Pur menzionando le convenzioni quadro gestite dalla Consip e dagli altri soggetti aggregatori il Codice non chiarisce i vincoli di utilizzo degli strumenti di questo programma che ha stravolto gli approvvigionamenti pubblici a partire dal cambio di secolo introducendo il digital procurement. La nullità dei contratti, le responsabilità per danno erariale, le distinzioni degli obblighi e delle facoltà di ricorso alla piattaforma acquistiinretepa.it e gli ulteriori strumenti di negoziazione che non trovano descrizione nella normativa e nelle linee guida ANAC restano relegate in norme speciali che, di volta in volta, occorre recuperare, aggiornare o ricostruire. Tutta la pubblica amministrazione è obbligata alle convezioni Consip o comunque ne deve tener conto e, in ogni caso, deve usare il Mercato elettronico della pubblica amministrazione. Strumenti che da soli nel 2021 hanno consentito di erogare 18,6 miliardi di euro in appalti pubblici[3].
Riflessioni di maggior dettaglio seguiranno nel corso della consultazione che si aprirà sul Codice. Riformando il sistema degli appalti pubblici in Albania numerosi anni fa, ho potuto apprezzare la volontà del Governo di scrivere non solo la legge generale ma di essere pronti anche con tutte le discipline attuative. E ciò diviene fondamentale affinché non si verifichi, ancora una volta in Italia, che tante norme restino lettera morta (i.e. qualificazione delle stazioni appaltanti, albo di commissari di gara, piattaforma dei bandi di gara, banca dati degli operatori economici, etc.). Speriamo soprattutto che si tenga conto delle preoccupazioni e dei consigli che provengono dall’esercito di RUP che dovrà, nel corso del prossimo anno, combattere contro il tempo per realizzare gli interventi previsti dal Piano nazionale di rilancio e resilienza. Un esercito che merita di essere ascoltato e supportato.
[1] I dati Istat sono pubblicati su https://www.istat.it/it/archivio/274957
[2] Cfr. Relazione 2022 su https://www.anticorruzione.it/-/relazione-annuale-2021-1
[3] Cfr. Open data Consip https://dati.consip.it/report