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CODICE DEGLI APPALTI: POLEMICHE INUTILI E STRUMENTALI, SI AFFRONTINO LE VERE QUESTIONI

Il Codice dei contratti pubblici è diventato legge. Il settore dei appalti e delle concessioni sarà governato nei prossimi anni dal decreto legislativo numero 36 del 31 marzo 2023.

In questi giorni i media nazionali hanno concentrato l’attenzione sulle polemiche mosse innanzitutto dall’Autorità nazionale anticorruzione ad un testo che qualcuno ha ribattezzato come “Codice Salvini”. Il Codice dei contratti non può essere intestato al ministro di turno.

In particolare questo nuovo codice, che è stato elaborato durante il governo Draghi da una commissione del Consiglio di Stato. È già qui siamo di fronte alla prima stortura. Per quanto i magistrati amministrativi conoscano la materia non ne sanno quanto coloro che sono quotidianamente chiamati a gestire le procedure di affidamento. Qualche tempo fa proprio il Consiglio di Stato ha registrato un dato significativo:  il contenzioso sugli appalti è pari al 3% del totale degli affidamenti. Questo significa che la magistratura ha una visione del tutto parziale e minoritaria delle esigenze che riguardano il settore. Affidando al Consiglio di Stato la stesura del codice il governo Draghi ha commesso lo stesso errore che fece il governo Renzi affidando nel 2014 la guida dell’ANAC all’attuale capo della procura di Perugia Raffaele Cantone. La disciplina degli appalti non può essere scritta a tavolino da chi non sa cosa significa acquisire un CIG e pubblicare un bando!

In alcune testate e trasmissioni televisive l’odierno presidente dell’ANAC Giuseppe Busia ha fatto sentire la sua voce rispetto ai rischi che si correrebbero nel nuovo codice per l’utilizzo di affidamenti diretti per importi molto elevati. Ma dov’era l’ANAC e le opposizioni (ex maggioranza) quando il governo Draghi prima nel 2020 e poi nel 2021 aumentava la soglia degli affidamenti diretti di oltre il trecento percento? Non è un errore di batittura: da 40 a 139 mila euro! Se è vero che il nostro paese non è allineato a livello comunitario, per aver ecceduto nello spazio destinato agli appalti senza procedura competitiva, e anche vero che questa scelta non può essere addebitata al governo che ha approvato il testo definitivo del codice.

Le barricate alzate non colgono le reali criticità di una normativa, vale la pena ricordarlo, ancora una volta pretesa dall’Unione Europea. Dopo i decreti del 2006 e del 2016 attuativi delle direttive rispettivamente del 2004 e del 2014, il nuovo Codice risponde alle richieste di riforma strutturale contenute nel Recovery Plan. E ciò ha determinato una frettolosa approvazione perché l’Italia era già in ritardo nell’adozione delle nuove regole sugli appalti che avrebbe dovuto introdurre nel giugno 2022 per ottenere la seconda tranche del PNRR che è stata poi versata dalla Commissione nel settembre successivo. È evidente che il governo di Mario Draghi ha ricevuto maggiore clemenza di quella applicata al governo Meloni che, rispetto alla chiusura del secondo semestre 2022, non ha ancora ottenuto il relativo finanziamento.

Passando alle questioni più serie il Codice presenta una novità molto positiva che speriamo non rimanga lettera morta, come è stato per decine di disposizioni del codice del 2016. Ci riferiamo all’obbligo formativo per i responsabili unici del progetto. È previsto infatti che ciascuna stazione appaltante approvi un piano della formazione annuale e che destini risorse per accrescere le competenze ed incentivare i RUP. Le tutele e gli incentivi dei RUP sono fondamentali perché la macchina amministrativa si muova con solerzia. La certificazione delle competenze è necessaria per dotare le stazioni appaltanti di personale capace e responsabile. La patente dei RUP promossa dall’Associazione nazionale dei responsabili unici del procedimento è uno strumento indispensabile perché gli appalti vengano progettati, affidati ed eseguiti nel rispetto delle migliori pratiche nazionali ed internazionali. Allo stesso tempo, così come ogni organizzazione investe sui propri dipendenti con incentivi per la performance, anche ai RUP – siano essi funzionari o dirigenti – deve essere garantito un premio al raggiungimento degli obiettivi. E’ incorente che le ditte possano ricevere premi per l’accelerazione dell’appalto, mentre i responsabili degli enti appaltanti debbano lavorare con la prospettiva soltanto con minacce di sanzioni amministrative, contabili e penali. Il Governo non ha colto tale necessità, lasciando cadere le proposte avanzate negli scorsi mesi dalle organizzazioni di settore. I prossimi interventi devranno cambiare metodo (ascoltare la voce degli addetti ai lavori) e il merito: tutelare e incentivare i RUP per realizzare i progetti del PNRR.

LA PRESCRIZIONE: UN DIBATTITO ETERNO E INUTILE

Il contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione si può realizzare soltanto con strumenti di investigazione e una riforma culturale per restituire senso di appartenenza

Il dibattito riaperto dal Ministro Nordio sulla prescrizione e sulle dimensioni della pena per i reati di corruzione affascina molti studiosi ed opinionisti. In un paese che fatica a portare a conclusione i processi è evidente che l’istituto della prescrizione, nato per dare certezza alle situazioni giuridiche soggettive, appare da un lato indispensabile per gli imputati onesti e dall’altro salvacondotto per i rei corrotti. La discussione è tra quelle che periodicamente ritorna alla ribalta dei media, senza che una soluzione definitiva vi possa essere.

I numeri della corruzione in Italia lasciano pensare ad un fenomeno assai ridotto. Sia l’ISTAT che il Ministero della Giustizia forniscono dati che, presi da soli, appaiono irrilevanti per contrastare il fenomeno. Purtroppo le statistiche non sono recenti ma consentono comunque alcune riflessioni.

In un’analisi pubblicata il 15 novembre 2022, il Ministero di Giustizia, dopo aver operato una riclassificazione dei delitti di corruzione in base alla nomenclatura internazionale, registra per l’anno 2019 i delitti per i quali c’è un procedimento a seguito di iscrizione nel registro delle notizie di reato (36.806) e quelli per i quali è avviato il dibattimento (9.128). Ne deriva che soltanto uno su quattro dei procedimenti avviati porte al processo, con una condanna oppure un’assoluzione. C’è una netta distanza tra i reati di corruzione (in senso stretto) e quelli di appropriazione (come il peculato). 25.765 procedimenti (con 8.315 dibattimenti) appartengono a questa seconda categoria contro 1.618 (di cui 414 dibattimenti) che sono rientranti nella prima.

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QATAR-GATE: UNA PROPOSTA PER CONTRASTARE LA CORRUZIONE

La corruzione al Parlamento europeo non può meravigliare coloro che sono impegnati seriamente per combattere un fenomeno che periodicamente investe l’opinione pubblica.  Le inchieste giudiziarie che riguardano politici e collaboratori disonesti ci sono sempre state e sempre ce ne saranno se è vero, com’è vero, che comportamenti corrotti si registrano sin dall’antichità. Il fatto che siano stati trovati con le mani nella marmellata vertici delle istituzioni comunitarie permette di fare alcune riflessioni su un fenomeno che in Italia è regolato dalla Legge Severino del 2012 senza che vi siano stati seri progressi per arginarlo.

La percezione della corruzione. Personalmente ritengo che la classe politica sia prevalentemente composta da persone oneste, competenti e responsabili che non hanno nulla a che fare con una gestione spregiudicata delle funzioni pubbliche. Tuttavia c’è una seria responsabilità di tutta la politica nel consentire queste eccezioni che, portate all’attenzione dei cittadini, appaiono essere la regola di condotta. I partiti non sono affatto parti lese, ma sono responsabili per non avere misure di controllo e due diligence dei propri esponenti. La reputazione del decisore politico è macchiata da queste inchieste e dalle condanne che sono spesso molto meno delle indagini. I candidati (così si indicano coloro che, senza macchia (da qui il termine),  vorrebbero svolgere un ruolo politico) sono sottoposti in Italia ad una verifica – peraltro non vincolante negli esiti  – della commissione parlamentare antimafia, come se l’organizzazione criminale sia l’unico modo per gestire illecitamente il potere politico. Anche questa analisi preventiva dei curricula rientra in una percezione che si vuole dare della corruzione così invasiva che merita di essere sottoposto ad un controllo di moralità, come se gli elettori non fossero in grado di scegliere in autonomia. Vale la pena ricordare che quando anche fosse eletto un personaggio non integro sarebbe semplicemente lo specchio dell’elettorato e della società che va a rappresentare. Piuttosto che fare le pulci ai curricula, generando dubbi talvolta su persone che sono soltanto indagate (violando così la presunzione d’innocenza), sarebbe opportuno lavorare per  realizzare una cultura dell’integrità nella comunità.

Il sistema di prevenzione della corruzione in Italia.  È enorme lo sforzo realizzato negli ultimi dieci anni che ha portato l’Italia a risalire la classifica di Transparency International, più volte indicata dall’Autorità Nazionale Anticorruzione come cartina di tornasole dei progressi ottenuti. Eppure non sembra che il fenomeno sia stato arginato né dalla Legge Severino (2012) né decreto sul Whistleblowing (2017) né dalla Legge Spazza Corrotti (2019). Il contesto normativo ha posto numerosi adempimenti (piani, relazioni, dichiarazioni, obblighi di comunicazione o pubblicazione, controlli, etc.) che hanno appesantito le pubbliche amministrazioni. Sono circa tre milioni e mezzo coloro che lavorano nel settore pubblico e che trovano tutte queste misure in larga parte inefficaci. L’ANAC sembra esser diventata un’autorità autoreferenziale che produce documenti per giustificare la propria esistenza piuttosto che per migliorare un sistema in cui servirebbe un’unica misura per contrastare incompatibilità e conflitti d’interesse. Apparirà semplicistico, tuttavia basterebbe riportare senso di appartenenza nelle istituzioni. Bisogna rendere orgogliosi i dipendenti pubblici di servire la collettività nella propria amministrazione. Occorre valorizzare l’integrità ed il merito piuttosto che minacciare di sanzionare un esercito di colletti bianchi sul quale viene gettato fango ogni volta che uno di loro sbaglia o semplicemente si sospetta che abbia sbagliato.

Una seria proposta anticorruzione. Nonostante la legge Severino abbia introdotto il traffico per influenze illecite, peraltro una specie di reato di fatto già sanzionato dall’ordinamento penale anche senza la formulazione della norma del 2012, non sembra che la politica sia consapevole del ruolo che investe nel contrasto alla corruzione. Come detto il legislatore ha trasferito le misure di lotta alla corruzione a carico dei dirigenti e dei dipendenti pubblici, quando in realtà lo sdegno e la preoccupazione dei cittadini riguarda il comportamento dei politici. È sufficiente ricordare che la legge Severino viene adottata a distanza di pochi mesi e sull’onda dello scandalo della distrazione dei contributi per i gruppi consiliari alla Regione Lazio che portò alle dimissioni di Renata Polverini. Una seria proposta anticorruzione deve riguardare la classe politica e deve essere volta a garantire sempre più integrità. Tempo fa ho redatto una proposta di legge sul tema. La cultura dell’integrità e della trasparenza si può affermare soltanto se vi è il coinvolgimento degli organi politici, i cui rappresentanti raramente partecipano ad incontri sul tema (seminari e corsi obbligatori per i dipendenti) ed appaiono poco sensibili alla diffusione delle buone pratiche di prevenzione della corruzione. La proposta intende favorire tale cultura attraverso il necessario impegno dei titolari di incarichi politici i quali, similmente a quanto avviene per i professionisti, devono dimostrare di avere la competenze necessaria per svolgere il proprio mandato, ivi inclusa la deontologia che si può acquisire anche attraverso attività di formazione specifica in materia di integrità e di prevenzione della corruzione.

La formazione obbligatoria dei politici su integrità ed etica. Consapevoli che un seminario non sia sufficiente per superare la cd. cultura dell’adempimento, è evidente che un semplice attestato di partecipazione non è indice del livello di formazione acquisito. Pertanto la proposta prevede una verifica finale alla quale sarà data ampia visibilità attraverso il sito web dell’amministrazione e, per gli enti locali e le regioni, la pubblicazione nell’anagrafe degli amministratori. Sempre al fine di evitare che l’attività formativa sia considerata un mero adempimento e venga data scarsa attenzione alle migliori pratiche individuate dall’Autorità Nazionale Anticorruzione per favorire l’integrità e la trasparenza (in primis, il piano triennale di prevenzione della corruzione e della trasparenza), la proposta prevede la sanzione della sospensione dall’incarico in caso di mancata partecipazione all’attività di formazione. Si tratta di una sanzione forte ma necessaria per riportare l’etica pubblica al centro della politica e ricostruire un clima di fiducia con i cittadini.

TRA MILLE ADEMPIMENTI SI COMBATTE DAVVERO LA CORRUZIONE?

Le parole del Ministro Nordio sono un buon inizio per riformare sistema di prevenzione della corruzione

La lotta alla corruzione è una cosa seria. Non solo perché evita deviazioni significative di decisioni pubbliche che determinano un costo per lo Stato, ma soprattutto perché impegna tre milioni e mezzo di persone che lavorano nel settore pubblico a vario titolo e che meritano rispetto. La pubblica amministrazione non è un’organizzazione criminale, nonostante il legislatore l’abbia equiparata all’associazione di stampo mafioso, quando nel 2019 ha introdotto la legge n. 3 “spazza-corrotti” in cui si è istituita la figura dell’agente sotto copertura per investigare sui reati di corruzione. In quali altri reati è previsto questo strumento inquirente? La risposta è semplice: traffico di stupefacenti e malavita organizzata. Il pregiudizio è evidente e si è passati da una presunzione di buona fede ed imparzialità ad un sistema in cui il funzionario integro deve dimostrare la propria correttezza. Senza peraltro che siano stati diffusi dati sul ricorso a tale agente.

Sono dieci anni che frequento piccoli comuni, regioni, società partecipate, aziende ospedaliere, ministeri, fondazioni per formare funzionari e dirigenti pubblici all’integrità. Dieci anni di legge Severino, un orrendo articolato (che neppure può definirsi tale perché fatto di un solo articolo e una novantina di commi), che nessuno ha celebrato con festante saluto nel novembre scorso, perché a distanza di due lustri non si hanno dati su quanto si sia ridotta effettivamente la corruzione nel nostro paese.

Dice bene il Ministro Nordio: ci sono troppe norme sull’anticorruzione che di fatto favoriscono la corruzione perché è nella complessità e nell’incertezza del diritto che il corrotto ha vita facile. Eppure nonostante sia stata costituita un’autorità indipendente sembra ancora, si tratta di percezione, che la battaglia non sia neppure iniziata. L’ANAC è stata costituita dalle spoglie di due altre autorità (quella sulla vigilanza dei contratti pubblici e quella per la valutazione del merito e l’integrità). Probabilmente si è trattato di un peccato originale che ha caricato di troppe competenze un’organizzazione che non sembra guidare con prospettiva il settore degli appalti e sembra rimestare lo stesso brodo da anni per quanto riguarda la prevenzione della corruzione e la trasparenza.

In questi dieci anni ho spesso chiuso i miei corsi con questa riflessione: “l’effettivo miglioramento dell’integrità, della trasparenza e dell’efficienza dell’azione pubblica avrebbe richiesto sia un cambiamento culturale – orientato al risultato piuttosto che al mero adempimento – sia un impegno organizzativo, che tuttavia ancora stentano ad affermarsi in un contesto nel quale, peraltro, i vertici politici manifestano una scarsa propensione a definire obiettivi chiari, misurabili e rendicontabili ai quali assegnare le relative risorse e sui quali possa misurarsi il merito dell’amministrazione ed essere esercitato il controllo sociale”.

In genere i partecipanti ai seminari convengono che si tratti di una affermazione estremamente attuale. Eppure è contenuta nella relazione annuale del 2013 dell’Autorità Nazionale Anticorruzione dell’allora presidente Raffaele Cantone (un magistrato messo al vertice dell’amministrazione pubblica). Sono passati dieci anni in cui l’opinione sullo stato dell’arte nella lotta alla corruzione si è mantenuta immutata. Dieci anni persi per contrastare veramente la corruzione con delle ricette che producano risultati. E ce ne sono di ricette ulteriori rispetto a quelle proposte nel piano nazionale anticorruzione 2022-2024.

Se andiamo sul sito web dell’ANAC, un sito tutt’altro che accessibile per la ricerca di dati e documenti nonostante le linee guida di AGID del giugno scorso, troviamo la notizia del differimento della relazione annuale dei responsabili della prevenzione della corruzione e della trasparenza al 15 gennaio. Un differimento al quale assistiamo negli ultimi anni (da dicembre, a gennaio passando per marzo) determinato dal covid e dalle modifiche legislative. Un differimento però che la dice lunga sulla rilevanza del monitoraggio effettivo che si realizza nelle organizzazioni tenute ad applicare la legge Severino. D’altronde, non possiamo che osservare con mestizia, che la relazione annuale dei RPCT sia soltanto un “mero adempimento” che si aggiunge ai tanti, troppi. Incombenze che invece di contrastare la corruzione rendono faticoso lavorare nel settore pubblico senza che vi sia alcun riconoscimento per i milioni di funzionari e dirigenti onesti, competenti e responsabili.

CASO ROMEO: RIPENSARE IL FACILITY MANAGEMENT

La chiusura della vicenda dell’imprenditore Alfredo Romeo, con la condanna ad due anni e mezzo per corruzione dopo il patteggiamento del dirigente Consip, non può solo indignare. Consip nel 2021 ha gestito 18,3 miliardi di euro attraverso i suoi strumenti messi a disposizione delle pubbliche amministrazioni. Un sistema, quello della razionalizzazione della spesa pubblica, voluto nel 1999 dall’allora ministro dell’economia Giuliano Amato, che ha portato certamente grandi benefici al settore degli appalti pubblici. Basti pensare che anche in Europa hanno lodato il modello inserendolo nelle direttive quadro del 2014. La centrale di committenza garantisce vantaggi diretti (una potenziale riduzione dei prezzi unitari grazie all’aggregazione della domanda) e un risparmio indiretto (la riduzione significativa del numero di procedure, con eliminazione dei costi delle gare per le singole stazioni appaltanti).

Tuttavia il caso Romeo riporta alla memoria ciò che avvenne nel 2003 quando Consip pianifico di bandire la prima gara di global service (o facility management). I ricavi illeciti di Romeo riguardano proprio questo settore sul quale occorre fare una seria riflessione.

Il facility management  è

l’affidamento di servizi integrati, gestionali ed operativi, da eseguirsi negli immobili, adibiti prevalentemente ad uso ufficio, in uso a qualsiasi titolo alle pubbliche amministrazioni.

Si tratta di un compito di coordinamento di tutte le attività che servono a mantenere un immobile, dall’impiantistica ai piccoli interventi di riparazione. Generalmente queste operazioni sono svolti da piccole imprese prossime alla sede degli enti in modo da garantire un pronto intervento. Piccole imprese che in passato avevano un rapporto diretto con le stazioni appaltanti che, attraverso lo strumento del cottimo fiduciario, affidavano piccoli appalti. Con l’avvento di Consip e della centralizzazione dei contratti, questi affidamenti diretti si sono trasformati in subappalto con l’inserimento nella filiera del facility manager che, eccedendo forse in semplificazione, appare un mero intermediario in affari. Il canone che si paga a questo soggetto non può che incidere negativamente sul prezzo che riceve il subappaltatore.

Sentiamo ripetere spesso che occorre favorire le piccole, anzi micro, imprese (lo prevede anche il decreto sul PNRR), tuttavia poco possono fare i RUP per individuare una ditta affidabile del territorio se poi è il facility manager a scegliersi i subappaltatori. Le piccole imprese per lavorare con gli enti devono passare attraverso le convenzioni della Consip, pagando il prezzo di una intermediazione il cui valore spesso anche le stazioni appaltanti non percepiscono.

La vicenda Romeo può essere l’occasione per rivedere la strategia del programma gestito dalla Consip. Strategia che decise la politica e che, in ultima analisi, spetta oggi sempre alla politica ridisegnare.

RUP: DA FUNZIONARI A PROFESSIONISTI DEI CONTRATTI PUBBLICI

Sono trascorsi quasi trent’anni dalla Legge Merloni che ha istituito la figura del #RUP negli #appalti pubblici. In questo lungo periodo, nonostante numerosi tentativi, il ruolo del responsabile unico del procedimento ancora non ha raggiunto una sua fisionomia. Dal RUP impegnato nella realizzazione di strutture strategiche si passa al RUP che provvede all’acquisto di cancelleria e di strumenti necessari al funzionamento delle stazioni appaltanti.

Anche gli interventi dell’#ANAC, a partire dalle linee guida del 2016, non sembrano contribuire a costruire una professionalità di cui essere orgogliosi. Se poi il legislatore menziona il RUP solo per attribuire nuove responsabilità e minacciare sanzioni è evidente che decine migliaia di funzionari e dirigenti pubblici sono lasciati da soli ad affrontare questioni assai delicate che riguardano una spesa che nel 2021 è stata di oltre 190 miliardi di euro.

#Onestà, #competenza e #responsabilità sono le parole chiave per gestire questa delicata fase di cambiamento con il nuovo Codice dei #contrattipubblici e l’avvio degli affidamenti nell’ambito del PNRR.

Condividi queste riflessioni e la necessità di mettere in rete questi professionisti degli appalti, per garantire un supporto reciproco ed orientare le politiche in materia di #contratti pubblici al fine di valorizzare il capitale umano nell’interesse pubblico?

Se sei interessato ad un percorso comune, contattami per avviare una start up innovativa nel #procurement italiano!

IL NUOVO CODICE DEI CONTRATTI E L’ESERCITO DEI RUP

Il 20 ottobre il Consiglio di Stato ha licenziato la bozza del codice dei contratti pubblici, una riforma strutturale del sistema degli appalti richiesta per l’attuazione del PNRR. Il Governo Draghi, al fine di conseguire la seconda tranches di aiuti comunitari, ha dichiarato già raggiunto questo obiettivo. Ancora una volta il legislatore si è affidato alla magistratura amministrativa per la stesura di una regolamentazione che ha un impatto notevole sul PIL nazionale[1]. Secondo l’ANAC nel 2021 la spesa in appalti e concessioni è stata di oltre 190 miliardi di euro[2], un vasto mercato fatto prevalentemente di servizi e forniture e, in coda, di costruzione di opere pubbliche. Il 10 per cento del prodotto interno passa attraverso la spesa pubblica che le stazioni appaltanti affrontano per realizzare i propri obiettivi strategici.

La Commissione Carbone (nel 2006 toccò all’allora presidente Pasquale De Lise) ha consegnato un testo che certamente si caratterizza per una struttura innovativa ma che non coglie tuttavia appieno le esigenze che funzionari e dirigenti impegnati ogni giorno a richiedere CIG, negoziare sul MEPA, controllare i requisiti delle imprese e caricare stati di avanzamento sul SIMOG.

Purtroppo, e non sarebbe la prima volta, il testo è carente nel merito ancor prima che nel metodo. E’ scritto da esperti della materia che non sempre hanno “le mani in pasta”. Anche nel 2014 ai tavoli preliminari alla stesura del Codice, poi varato nel 2016, sedevano stakeholders che rappresentavano universi particolari (Ministeri, ANAS, Consip) oppure studiosi della materia, docenti e professori, che si occupano di contratti pubblici in sede contenziosa o per offrire pareri pro veritate senza tuttavia aver mai supportato un RUP in una procedure sotto soglia.

La realtà è diversa da quella descritta nelle norme che ricostruiscono un sistema ideale. La realtà che vive una unione di comuni, un ordine professionale o un’ambasciata è molto diversa da quella che il codice descrive. Tale differenza determina una grande frustrazione negli operatori del settore che devono adattarsi, di volta in volta, cercando di essere conformi alla norma ed allo stesso tempo di realizzare l’interesse pubblico che sono chiamati a conseguire. Almeno questa è l’opinione formata  in venti anni di incontri, seminari e convegni con stazioni appaltanti di ogni natura e dimensione.

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VENTI DI GUERRA SUL FRONTE OCCIDENTALE

Le notizie che provengono dall’Ucraina pongono tutto l’occidente nella preoccupazione di una guerra che pare già in corso, con manovre militari ed esercitazione dei civili. Tutto quello che si riesce a comprendere dai media è solo una piccola parte della questione russa che riguarda il rapporto tra il Cremlino e l’occidente. Ma poi, a ben vedere, noi siamo l’occidente di cosa?

Purtroppo così come nel contesto politico nazionale destra e sinistra hanno perso una identità politica (se addirittura Calenda, col suo partito borghese, si propone come voce di sinistra), anche nel quadro internazionale i media continuano ad usare termini del ‘900 e, allo stesso tempo, precisano che lo scenario che affrontiamo e del tutto nuovo.

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CARO BOLLETTA, TI SCRIVO … COSI’ MI DISTRAGGO UN PO’

Non sono in grado di spiegare perché i prezzi di energia e gas sono triplicati. Economisti e tecnici sono sicuramente più preparati di me. Senza dubbio l’aumento è frutto di una speculazione sul mercato primario. E’ possibile documentarsi al riguardo, sapendo distinguere le fake-news (quelli che … è colpa di Putin e della guerra in Ucraina) dalle analisi meditate. Nel febbraio 2018 Elena Veronelli scriveva su Il Fatto Quotidiano: “Continuano ad impennarsi senza freni i prezzi dei titoli di efficienza energetica (tee), ossia quei titoli (detti anche Certificati Bianchi) che i distributori di elettricità e gas oltre una certa dimensione sono obbligati a comprare se non vogliono realizzare interventi di efficientamento nella loro struttura. Un fenomeno iniziato e denunciato già da oltre un anno, che evidentemente le autorità preposte riescono a fermare“. Non si tratta di una testata complottista, ma di una chiara denuncia: le autorità preposte hanno fermato né fermano la speculazione.

La crisi energetica era stata silenziata dal Covid ma rischia di produrre effetti devastanti sull’economia reale. Le imprese già in ginocchio per la produzione ora vedono incrementare i costi fissi, senza prospettiva di ripresa. E’ la mannaia che si abbatte sull’Europa e sull’Italia per determinare la liquidazione finale del patrimonio pubblico e privato?

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DA TANGENTOPOLI A IGNORANTOPOLI?

Oggi ricorrono i trent’anni di tangentopoli, l’inchiesta giudiziaria che ha determinato la fine di quella fase storica denominata prima repubblica. A dire il vero era già la seconda repubblica, giacché la prima è morta con l’omicidio di Aldo Moro. In ogni caso, questa ricorrenza va ricordata per le sofisticate tecniche con le quali la classe politica sottraeva denaro pubblico per organizzare le proprie attività: il finanziamento illecito ai partiti.

Da allora la classe politica non ricorre più  a tecniche sopraffine, visto che ogni giorno leggiamo notizie di corruzione talvolta “alla luce del sole”, penso alle recenti truffe sull’eco-bonus.

A mio avviso il danno che la corruzione arreca è assai minore dell’incompetenza dei politici nel gestire le risorse pubbliche. Nel breve periodo la cattiva amministrazione, fatta di conflitti d’interesse, può certamente determinare seri danni, ma nel lungo periodo la carenza di preparazione degli amministratori ha un effetto dirompente. Pensiamo a quanti provvedimenti vengono annullati o revocati per errori di valutazione, non dettati da abuso d’ufficio ma semplicemente dall’incapacità di fare la scelta migliore, quella più corretta e non corrotta.

Ecco perché nel trentennale di Tangentopoli vorrei proporre un seminario di formazione gratuita agli amministratori locali.

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